20 Ott Vorno: il paese delle lavandaie
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Tanti, tanti anni fa, in un giorno di primavera, venni alla luce.
Era il 6 aprile 1946.
Nacqui in un paese, per me da favola, immerso nel verde e ricco di acque.
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Il lavoro principale delle donne era quello della lavandaia, lavoro molto duro, non c’era stagione che avesse garbo nei loro confronti.
Lavavano i panni ai signori della città e questi panni, nel giro di una settimana, andavano anche fatti asciugare e riconsegnati.
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Il lunedì mattina le donne raggiungevano la città con il “cammio” ( autobus ) del Tambellini e dal paese partiva un barroccio carico di balle di iuta piene di biancheria fresca di bucato, lavata e ben piegata.
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Il barrocciaio scaricava le balle alla “ stanza”, una sorta di magazzino dove le donne si ritrovavano e di lì, con le balle in spalla, partivano su e giù per le strade di Lucca, su e giù per le scale dei palazzi, consegnavano la biancheria pulita e ritiravano quella sporca.
Alla sera, stanche morte, rientravano a casa, scaricavano nuovamente le balle dei panni sporchi dal barroccio, si rimboccavano le maniche e pensavano alla famiglia.
La mattina successiva si alzavano di buonora per andare nei boschi a fare il “ cario “ ( carico ) della legna per potere accendere il fuoco sotto le conche del “concaro “ ( concaio ) e qui aveva inizio il bucato.
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All’interno della conca , sopra il foro di uscita, veniva inserito un piattino, in maniera che l’acqua venisse fuori piano, piano; dentro la conca veniva sistemata la biancheria e sopra questa era stesa una tovaglia bianca ricoperta poi di cenere precedentemente setacciata e ben pulita.
Inizialmente con un recipiente si versava dell’acqua tiepida e poi sempre più calda .
La cenere serviva a disinfettare, era reperibile nel focolare di casa e non costava niente.
L’acqua scendeva lentamente dal foro e ne usciva la lisciva che, raccolta in un recipiente, era messa a bollire e tirata nuovamente sul bucato.
Nelle case non c’era l’acqua corrente, quindi le lavandaie l’attingevano nel rio o alle varie fontane del paese.
Questo duro lavoro andava fatto in tutte le stagioni.
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Tolti i panni dalla conca , veniva posato un bastone sopra una spalla alle cui estremità era posto il bucato sgocciolante e si andava a lavare i panni nel rio.
In inverno l’acqua gelata e il freddo facevano venire i geloni alle mani.
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Di tanto in tanto, le lavandaie fra una chiacchiera e l’altra, per scaldarsi un po’, infilavano le mani in un secchio di acqua calda e poi giù, inginocchiate davanti alla pietra obliqua nuovamente con le mani nel gelido rio ad insaponare e a risciaquare i panni o a batterli sul pietrone con il maglio.
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Quando pioveva si mettevono una balla in testa piegata a forma di cappuccio che scendeva sulle spalle fino alle anche e dai a insaponare e a togliere macchie con il sapone di Marsiglia e con l’aiuto della candeggina.
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Finita l’operazione, sciacquavano il tutto e strizzavano a mano la biancheria, la rimettevano sul bastone e la portavano a casa per stenderla sui fili ,nei prati o negli uliveti.
Il bucato risultava bianco e profumato.
Usavano anche il turchinetto, per dargli quel tocco di fresco e di nuovo ( una sostanza colorante azzurra: indaco o blu di Prussia, che sciolta in piccole dosi nell’acqua del bucato, toglieva il giallo e conferiva allo stesso un colore bianco azzurognolo).
In inverno era un grosso problema: i panni andavano asciugati, piovesse o non piovesse. Stesi sui fili, alle prime gocce di pioggia, andavano tolti.
Come veniva un po’ di sole o di vento erano stesi nuovamente e, se c’era il gelo, nel momento in cui li stendevi diventavano tegghi (secchi) come un baccalà.
C’era solo da sperare in un pò di sole per portare tutto alla normalità.
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Quelli umidicci, poi venivano finiti di asciugare davanti al caminetto.
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Vita dura, che scorreva lentamente come l’acqua del rio da un lunedì all’altro.
Tutto questo, per 365 giorni all’anno, durò fino alla fine degli anni Sessanta.
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Ciò avveniva a Vorno “IL PAESE DELLE LAVANDAIE “ .
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L’estate era favolosa; in due balletti asciugava tutto, ma c’erano due grossi problemi: nel concaio con il
fuoco acceso morivano dal caldo e nel rio con il sole cuocente arrostivano come caldarroste,
ma quello era il loro lavoro!
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Migliori, se non pioveva, erano le mezze stagioni, con un po’ di
sole e magari con l’aiuto di un buon venticello, diciamo che grosso modo andava tutto alla perfezione.
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Da piccola ho conosciuto molte lavandaie. Se socchiudo gli occhi le vedo ancora davanti a me con mani e corpi deformati dai vari sacrifici affrontati nel corso della loro vita.
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Vedo Marì, la Bella, Gigino suo fratello( il lavandaio) , Mariannina, Bruna, la Beata, Isola, Mariuccia e tante altre.
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Le prime tre erano vicine di casa, sempre sorridenti , sempre con una buona parola, pronte ad aiutarti se ce ne era bisogno.
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Quello era, nonostante la diffusa miseria, un mondo più bello di ora, dove tutti ci volevamo più bene, sempre pronti ad aiutarci l’uno con l’altro.
A Vorno, negli anni, sono state fatte tante cose, ma nessuno ha mai pensato di erigere un piccolo monumento o una lapide alle nostre coraggiose e meravigliose donne.
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Questa era la vita di altri tempi e se oggi lo raccontiamo ai nostri ragazzi,questi, stentano a crederci.
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di Maurizia Cardoni
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Ho avuto modo di apprezzare le opere di Maurizia Cardoni prima ancora di conoscere la pittrice, di persona.
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Sono rimasto profondamente affascinato dall’anima, oltre che dalla raffinata tecnica pittorica, che ha “fissato”, su tela, in quelle sue composizioni sceniche di grande armonia.
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In ogni dipinto convivono pacifici tanti elementi positivi, umani, vegetali, architettonici, tra loro proporzionati e discreti, talvolta parlanti se pur nella loro statica posa.
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Una luce estatica, la stessa luce radente dell’alba e del tramonto ricercata dai grandi fotografi, accarezza i protagonisti descrivendone l’ombra, sul piano primario del dipinto, che si allunga, continua e non termina.
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Nella scia di quest’ombra rassicurante, si trova spesso una bimba, una piccola donna ritratta nella sua lunga gonna e vestita come le altre signore che sono forse la mamma o la nonna o le paesane vicine.
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Tutto si svolge come un tempo: le case sono case, gli alberi sono alberi, le persone sono persone.
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In questa soave poetica si riconoscono i ruoli, i valori, i ricordi, l’infanzia, le estati, la famiglia, il lavoro.
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Ogni dipinto rappresenta uno scorcio, romanticamente nostalgico, della vita che si trascorreva in campagna, negli anni ‘50, quando tutto era migliore, le strade e le case sicure, ai nonni si dava del “voi” , il duro lavoro dei campi rendeva onesti e sfamava le famiglie numerose:
si viveva di quel “poco” che oggi sarebbe “tanto” davvero.
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il Lustro
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