19 Giu Il Conte Ugliandolfo e il Perugino
Il Conte Ugkiandolfo e il Perugino
Ni garbavino le carte
Al signor Conte
Padron com’era di mezza Lucca
di palassi e tanti campi di grano.
I campi L’aviva datti a fa’ a mezzadri
E lu’, a cavallo, indava a visitalli
Co’ cani ar seguito
A dovuta distansa dalli soccoli.
La spada l’aveva posata
Da qualche Lustro
Perché lu’aviva servito ancho il Re
E gloriosamente.
Ora faceva delle girate
Ne’ su’ possedimenti
A vede’ se avevan finito
Di sciarbà, di miète’
Se le fosse dell’incolli
Erin cavate
E tutti l’artri lavori
A soprintende’.
Po’ verso l’òra di mangia’
Si fermava da’ su’ contadini
Mangiava i su’ cunigliori
Beveva il su’ vino
E ni garbava sta’ con lòro
A discorre o a fa’ veglia
A racconta’ delle su’ battaglie
E de’ su beni.
Sonpratutto, fin’ a notte
Stava vollentieri al bare
Quello in fondo in Gagno
Per gioà a carte e a dadi.
Ma siccome i contadini
Un sapevin fa’ alla Riffa
Perché erino stati fanti,
E no ufficiali, al fronte
Allora finiva sempre
Che facevino a settemmezzo
E il bello era scommette un vino
O ave’ un campo’ in più da miète.
Il Signor Conte po’,
era omo di parola
Vando perdevva honorava
E mai tirava indiétro,
E era davero “signore”
Perché il più delle volte
Ancho se vincieva
‘un’iriscuoteva da disgrassiati.
Ora, c’era una famillia
Lì dietro Paduletto
Ch’erino dieci figlioli
Tutti un popo’ rincotti.
Erino dei poveracci
Però erino de’ lavoratori
Che per una grostellora di pane
Avrebbin spianato anche i monti.
Più che rincotti
Erino così, alla semplice,
Sicche’ tutti li scherzavino
Ni nascondevino la robba,
Li mandavino ne’ posti
E poi ‘un si facevino trova’,
O ni tiravino i ghiovoni
Se passavino tra le viti.
Uno de’ dieci figlioli
Si chiava Cecco
Era quello méglio
Figuriamoci po’ il péggio.
Come mestiere era Perugino
Ossia assaggiava il bottino
Lo tirava su col gitto dalla bua
Ci metteva un dito drento
Po’ lo leccava, l’annusava
Ni guardava il colore
E S’era troppo dorco
E po’ diceva s’era bono.
Bono per modo di dì,
Perché sempre merda era,
Ma bono per e campi
Che ‘un li strinasse.
Insomma, mi pare era per e Santi
Perché c’era la fiera a Cammaiore
E Il signor Conte Ugliandolfo
col Signor Notaro amico suo,
Era in vena d’ischerzare
Su tutte le cose del Criato;
E ni venne ditto
Che se perdeva quella mano,
E già vincieva cinqu a zero,
E c’era da fari sei e basta,
Ni lasciava tutto ir Paduletto
A Cecchino ir Perugino.
Ora, tutt’intorno a Signori
C’erino i soliti leccaculi e baciapile
Quelli che fan tanto i bravi
E en tutti lòro ne’ paesi.
Il Conte s’era reso Conto,
Scusate ir vezzo,
D’avilla ditta grossa
Ma sie, insisteva per ‘un fa parti
E disse ancho:
“Sei te Il Notaro,
Tanto juro et sottoiscrivo,
Lassio Paduletto al Perugino”.
Oh te! Sarà che era serataccia
O che c’ha misso mano ir Diaule
Ma cominciarono a veninni
Tutte cartacce:
Ancho se aveva un due
Ni veniva un séi
Se aveva un quattro
Sortiva un altro vattro.
Alla fine stavino cinqu a cinque,
Allora s’alziede e indo’ fori
Al comodo a cambia’ l’acqua
E sortitte doppo un bel po’.
Si lavò le mano ammodo
Si bagnó ancho il fazzoletto
Che aviva ar collo
E tornò a sede’.
Ordinò beve
Che ni portassero un vino
Rigio’ó e perdiede.
S’alzó e ritornó al comodo.
Guando rivense
Un servitte a nulla
Che il Signor Notaro
Dicesse che un occoreva.
“Un v’è nulla di iscritto
Son cose dette per ischerzo,
Tra compagni all’osterria
Ma figuriansi óra…”
Ma il signor Conte
Aviva una parola solamente
E contava di più quella
Che tutti li scritti e i messali.
Comandó che prendessero
Una penna, un calamaio e un foglio
Sicché, quelli che erino bravi solo lòro ,
Partiron subito, che dici!?!
Al signor Notaro
Ni tocco scrive il rogito
E al bare la gente ghignava
E senza fassi vede’ pensava:
“ Genitori!!! Ma ora sullo stemma
Che ci fan? Ci levino i leoni
E ci mettono il gitto?
E noi artri chi ci guverna? Cecco?”
Alla fine il padrone fu Cecco davero,
Ma lo stemma un lo cambiarono
‘un se la sentirono
Et un fecero a tempo:
Cecchino ‘un era un affarista
Sapeva a malapena
Se il mangia’
Ni faceva bono o no
Vendiede al Dottore
Quello della farmacia di Pariano
Per tremila lire ebbasta
E ancho du piatti di pasta.
novelletta di fantasia, riferimenti a fatti, luoghi o persone puramente casuali.
No Comments