18 Feb Il giardino sulla spiaggia: lo scultore Inaco Biancalana
Le parole solenni e formali del vicesindaco, vestito per l’occasione con un abito scuro, riecheggiavano sui presenti, per poi disperdersi nella fresca aria mattutina della darsena. Era aprile, il 14 per la precisione, una lieve brezza di terra, odorosa di resina e corteccia, giungeva frizzante dalla pineta. Il canale e la darsena antica, invece, odoravano di nafta e olio pesante, prodotti feroci della moderna meccanica. I cantieri aggiungevano a questa schiera di odori il rumore del lavoro degli operai che facevano gridare l’acciaio e ruggire le saldatrici ossiacetileniche. Gli stessi “darsenotti”, anche se non più le stesse facce, a cui Inaco dedicò un così onorevole posto nella sua produzione o, per meglio dire, passione. Intanto passava la solita fila di macchine sull’asfalto freddo. Le strade avevano lo stesso rumore di sempre. Tutto lì intorno sembrava normale. In una di quelle auto un bambino guardava fuori dal vetro del finestrino e chiedeva: “Papà, che fa quella gente?”.
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Quella gente pregava, ricordava, piangeva. Tra le due schiere di persone e, a tratti, anche nella terza, c’era Giovanni. Un giornalista di mezza età, altezza media e corporatura piazzata, ma non grossa. Indossava un impermeabile leggero, aperto davanti. Sotto, una maglia di cotone ed un paio di pantaloni da mezza stagione. Scarpe eleganti, come sempre, ma forse quel giorno erano più lucide del solito. La carnagione non era scura, né candida: aveva quel bel colorito tipico di quella gente che da secoli abitò le coste del nostro mare, il Tirreno. I capelli erano scuri, corti, puliti, un po’ ricci, tenuti di solito liberi, ma quel giorno rigorosamente pettinati. Sulle guance e sul collo si vedeva un’infinità di cortissimi peli, perché la sua barba era scura e si notava anche quando era rasata. Non aveva ornamenti in vista, solo l’orologio da polso, comune e di scarso valore, e la fede che sua moglie gli aveva messo al dito molti anni prima, di fronte al prete, in una chiesetta a Viareggio. Le era sempre rimasto fedele, né aveva desiderato di più perché lui era davvero innamorato e corrisposto.
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Lei, Silvia, era una ragazza che, trapiantata a Viareggio da piccola, aveva assimilato in fretta le tradizioni (quelle che restavano) di quella città. Era una donna piccola, magra di carnagione chiara. Occhi vispi e scuri come i capelli che le scendevano sulle spalle. La sua bellezza era semplice e naturale. Quel giorno il viso era truccato, le labbra colorate di rosso. Era vestita con un paio di pantaloni grigi, una maglia e un giacchettino in tinta, di cotone. Aveva una borsetta di pelle scura. Era in piedi vicino a suo marito, tra la folla, all’ombra dello studio del loro amico scomparso.
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Il tempo passava, le voci, i discorsi si susseguivano. L’atteggiamento di dolore per il ricordo di quella morte sembrava essere generalmente sincero. Giovanni, immerso nei ricordi di un tempo passato, fissava con uno sguardo vuoto il piccolo orticello verde di piante e fresco d’ombra, luogo di ispirazione dove Inaco aveva lasciata sfogare sul legno la sua creatività.
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Molte persone avevano già parlato, quando, tra gli applausi, era stata scoperta una lapide di marmo bianco, fissata al muro scalcinato tra due grandi finestre, con quattro fascette di metallo. “A Inaco Biancalana – leggeva il vicesindaco soddisfatto, ma con aria un po’ mesta – che dalla nostra terra – Giovanni era sul punto di commuoversi – e dalla nostra gente trasse l’ispirazione – si commosse e pianse sinceramente l’amico, abbracciato alla moglie che a stento tratteneva le lacrime. L’autorità, dopo una breve pausa continuò con voce fiera – per immortalare la sua insigne opera di scultore e grafico l’animo viareggino nel mondo – si fermò un attimo e riprese, non senza un po’ di tristezza nella voce – A nome dei suoi concittadini il comune di Viareggio pose.
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Giovanni si asciugò le lacrime e applaudì, come gli altri, ma lui non era più lì, non era in via Menini e non era nel 1992, la sua mente scorreva tra i ricordi. Vedeva il tempo scorrere indietro nella sua mente, ripercorreva tutti gli avvenimenti passati legati alla sua amicizia con Inaco, ed ecco nel rapido scorrere dei pensieri riaffiorò, bello come una mattina di primavera, il ricordo del suo primo incontro con lui.
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Giovanni era già un giornalista affermato in campo locale ed emergente nel settore della stampa nazionale, soprattutto per il suo interesse verso l’arte, quando incontrò Inaco. Lavorava presso la redazione di un giornale versiliese, ma i suoi “pezzi” di critica artistica erano talvolta pubblicati anche su autorevoli riviste e quotidiani nazionali. Così, una mattina all’inizio di marzo del 1985 il direttore della sua redazione entrando nell’ufficio impestato di fumo vide Giovani che scriveva al computer un articolo. Con la solita aria nervosa si avvicinò e disse:
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“Giovanni, lascia perdere quel lavoro, lo finirà qualcun altro. A te devo affidare un incarico più importante!”.
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Giovanni ascoltava con attenzione.
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“Oggi c’è l’apertura di una grande mostra antologica su uno scultore e pittore locale, a Palazzo Paolina. Si tratta di Inaco Biancalana, è abbastanza famoso, qui in zona. Tu andrai là e mi farai un articolo.”
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Girandosi andò verso la porta. Si fermò un attimo, come per pensare, poi si rigirò quasi di scatto e aggiunse:
“La critica la voglio precisa e completa!”.
Passò la porta e scomparve nel suo ufficio.
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Palazzo Paolina, quasi in stato di abbandono, si mostrava desideroso di un restauro generale, ma gli ammiratori ed i curiosi lo facevano sembrare più allegro.
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Il nostro reporter guardava con interesse i carboncini, le sculture ed i bassorilievi legati con sottili catene in modo che pendessero giù lungo pannelli chiari. Guardava sempre a lungo le opere e di tanto in tanto prendeva appunti su un bloc-notes. Il suo collega fotografo, consumava i rullini nella sua ingombrante macchina fotografica. Quando ormai il giro era quasi finito Giovanni volle fare qualche domanda all’autore. Guardandosi in giro lo vide là, seduto su una sedia. Aveva un pizzetto di barba più bianco che brizzolato, i capelli erano un miscuglio di peli neri e peli che un tempo lo erano stati, pettinati all’indietro. Lo sguardo era profondo e buono, come quello di un bambino. Giovanni si avvicinò e, dopo essersi presentato, chiese cortesemente:
“Mi scusi, posso farle qualche domanda?”.
“Ma prego, faccia pure, ci mancherebbe altro!”.
“Che cosa pensa di questa mostra?”.
Inaco sorrise e rispose:
“Poveraccio quello che l’ha fatta, chissà quanta fatica gli c’è voluta!”.
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Giovanni restò un attimo pensieroso, poi, senza far caso allo strano comportamento dell’artista, proseguì con la sua improvvisata intervista. Aveva un piccolo registratore da tasca che teneva in mano a mo’ di microfono per registrare le risposte che gli venivano date.
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“Come sono state giudicate dagli spettatori le opere esposte?”.
Inaco sorrise ancora di più, sembrava quasi divertito.
“A qualcuno piacciono e, per quanto mi riguarda, ne sono abbastanza soddisfatto”.
A questo punto, però, divenne molto più serio e aggiunse pesantemente:
“Anche a mio figlio piacevano i miei lavori e penso che gli sarebbe piaciuto essere qui a vedere…”.
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Giovanni continuò nel suo impegno, ma più che intervistarlo ci parlò a lungo e alla fine si salutarono quasi come vecchi amici. Dopo che Renzo ebbe fatto alcune foto a Inaco, che non ne fu tanto contento, tornarono in redazione, poi andarono a casa.
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Dopo un pranzo abbondante, ma non eccessivo, Giovanni si mise subito a lavoro. L’aroma del caffè riempiva l’ampio studio. La porta finestra all’inglese che dava sul giardino era aperta perché quel pomeriggio faceva piuttosto caldo. Ripensava a quella singolare figura di artista. Aveva un che di umile e stravagante, era spiritoso e al tempo stesso sembrava un uomo buono e saggio. La differenza di età tra i due era notevole, forse anche per questo quell’uomo gli ispirava affetto e rispetto. Fatto sta che scrisse un bellissimo articolo per la cronaca locale e una ricca critica per la pagina culturale. I pezzi furono pubblicati il giorno dopo senza bisogno di molte correzioni.
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I giorni passarono e, la vita è fatta così, non si scordò di Inaco, ma non ebbe più neanche l’occasione di incontrarlo.
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Dopo qualche tempo una rivista culturale locale chiese a Giovanni di fare un’intervista ad Inaco. Alla notizia ne fu subito felice ed accettò il lavoro.
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L’indomani, a metà mattina, andò in bicicletta fino allo studio dell’artista, col suo fedele registratore. Legò la bicicletta ad una pianta nello spazio adiacente alla casa e si diresse verso il cancello. Sotto i suoi piedi il rumore della ghiaia rivelava la sua presenza. Suonò ed attese finché non gli fu aperto. Inaco aveva un’aria quasi contrariata e l’aspetto più disordinato, ma quando vide chi aveva suonato alla sua porta, si rasserenò.
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Il sole batteva impietoso inondando gli occhi di Giovanni con i suoi raggi di luce. Entrò in una stanza, che gli sembrò buia finché i suoi occhi feriti dal sole non tornarono alla normalità.
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La stanza era ingombra di oggetti. In una parete, sotto un’alta, ma ariosa finestra c’era un caminetto. Ovunque erano appesi disegni e poster, appoggiate statue e tavole con i famosi bassorilievi. Su un tavolo, in parte sommerso da attrezzi e altri oggetti, era appoggiato un pezzo di legno pesante e ancora grezzo, ma che da un lato Inaco aveva già iniziato a scavare. Non era ancora chiaro che cosa ne sarebbe venuto fuori e Giovanni ne era incuriosito.
“Sono venuto per farti due domande.”, dichiarò apertamente.
“Ancora? Non mi hai già stufato abbastanza l’altra volta?”, rispose Inaco, ma la sua espressione ed il suo sorriso lo smentivano.
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Anche Giovanni sorrise e si mise a sedere; Inaco fece altrettanto.
“Questa rivista per cui sto lavorando”, cominciò, “vuole sapere molte cose, quindi servirà un po’ di tempo.
“Non c’è problema!”.
Inaco si versò del caffè.
“Ne vuoi?”, chiese:
“No!”.
“Allora incominciamo…”.
“Vorrei, intanto che tu mi parlassi della tua infanzia e della tua gioventù…”.
“Sono nato nel 1912, a Viareggio. Nacqui in casa, come tutti allora, in via S. Martino; era il 24 settembre. Mio padre fu dapprima marinaio, ma poi dopo alcuni viaggi in California e in altri porti lontani tornò a Viareggio per restarci. La nostalgia per questa terra, infatti, lo spinse ad aprire un negozio di stagnino o di idraulico, come si dice oggi. Grazie a Dio l’attività ebbe successo tanto che riuscì a comprare un paio di case là nella zona di via S. Martino e un terreno a Lido di Camaiore, ma nella famiglia le bocche da sfamare non erano poche: avevo due fratelli e una sorella. Eh sì, oggi sono rimasto l’ultimo, i miei fratelli, uno alla volta se ne sono andati tutti e mia sorella morì di parto durante la Seconda Guerra Mondiale. Uno degli aspetti negativi del vivere a lungo è quello di vedere morire uno alla volta i propri cari. E’ quello che è successo a me… sai l’anno scorso se ne è andata anche mia moglie Livia e quattro anni fa era morto anche mio figlio Leandro. Mi è rimasto solo Giuseppe. Vedi mia moglie, in quella foto?… era bella eh! Ma non voglio annoiarti ancora. La vita è così e non possiamo farci nulla, non ci resta che metterci nelle mani del Signore.”.
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Il caffè fumava, Inaco ne bevve un sorso e dopo un attimo proseguì:
“Dove eravamo rimasti?”
“Mi raccontavi di tuo padre”.
“Ah, sì, bene. I primi anni abitavamo lì nella zona del “Piazzone”. A me non piaceva studiare e non c’ero portato. Alla fine riuscii a prendere la licenza elementare perché mio padre portò dei fiaschi di vino al maestro. Così per imparare un mestiere andai come garzone da un barbiere, ma siccome non stavo un attimo calmo, cambiai due o tre volte bottega. Mia mamma riuscì a farmi aprire un negozietto di barbiere, ma fu un disastro. Il lavoro non mi piaceva e poco alla volta persi tutti i clienti. A me piaceva disegnare, amavo l’arte, solo quella, ma la mia famiglia pensava che non avrei mai potuto vivere facendo solo l’artista e cercava di spingermi in altre direzioni”.
“Come è nata questa passione per l’arte?”, chiese Giovanni.
“Mio nonno era un mago per noi ragazzi. Si chiamava Basilio e l’avevamo soprannominato Mangialegno per la sua passione di lavorare su legno. Quando tornava a casa, cavava di tasca un enorme coltello e su un pezzo di legno faceva una barchetta o altro ed io guardavo affascinato come maneggiava il coltello. Così crebbe in me questa passione. D’arte a Viareggio non se ne sentiva parlare molto. Io cominciai a lavorare di testa mia rivolgendo la mia attenzione verso gli elementi in cui vivevo per cercare un motivo da sviluppare per ore ed ore di lavoro. Eh sì, è un lavoro duro ed estenuante, ma il legno è una materia viva che risponde perfettamente alla mia ispirazione”.
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Inaco, poi, continuò:
“La cosa che mi cambiò la vita fu l’incontro con Livia, che sarebbe poi diventata mia moglie. Lei era una ragazza bellissima e a me piaceva già da tempo. Quando diventai amico della sua famiglia, tramite mio fratello, iniziammo a frequentarci. Anche lei era di origine umile, sua madre era morta quando lei aveva nove anni e suo padre era il Morino, un calafato: era un grande uomo ed io lo stimavo molto, tant’è che in seguito gli feci un busto. Anche lei amava il disegno e anche lo studio, però aveva potuto frequentare solo fino alla sesta elementare, perché suo padre di soldi non ne aveva. Così non fece mai gli studi artistici che aveva sempre desiderato. Lei era davvero la mia fonte d’ispirazione, era tranquilla, paziente e mi capiva. Ci sposammo nel 1939. Intanto, lentamente la gente cominciava a conoscermi; Giulia Viani, moglie del grande artista, mi aiutò a fare nel 1940 la mia prima esposizione al “Principe di Piemonte”. Nel ’42 scolpii la testa di Lorenzo Viani, che a Giulia piacque molto e nello stesso anno vinsi anche il concorso per il busto di Giuseppe Tabarracci. Nel 1945 ebbi l’occasione di fare una mostra a Roma, in un salone di via Condotti. Là vendetti molto e conobbi anche molte persone famose. Poi tornai a Viareggio e forse persi un’occasione, ma non me la sentivo di abbandonare la mia città: anche durante la Guerra rifiutai di andare ad insegnare alla Scuola d’Arte di Pietrasanta. Beppe, il primo dei miei figli, nacque sei mesi prima della Guerra. Nel 1942, Livia partorì Leandro e due anni dopo Clara. Quando nacque Clara eravamo sfollati già da un po’, a Corsanico, ma eravamo stati anche sul Prana e nella zona di Sant’Anna. In quel periodo la gente non pensava di certo all’arte eppure riuscii a vendere comunque qualcosa perché c’erano dei signorotti nelle ville ancora disposti a comprare. In quegli anni era difficile anche trovare il legno o i colori e dovevo usare materiali di recupero. Certo volte ho dato via lavori costati giorni e giorni per un po’ di pane e olio. Per fortuna riuscii a non partire per la guerra. Dopo la liberazione tornammo in città. Viareggio era stata bombardata e in parte distrutta o danneggiata; ovunque c’erano cumuli di macerie e la spiaggia era disseminata di mine. Piano piano la città ritornò a vivere, le costruzioni demolite furono ricostruite. Noi andammo ad abitare in via Rosolino Pilo in una casa di Ermete Zacconi. Qualche tempo dopo Zacconi vendette la casa ad un certo professor Moranti, che mi pagò bene perché me ne andassi. Così andammo a stare in una casa popolare in Darsena, lì ebbi anche la possibilità di ricavare un piccolo studio nel seminterrato del palazzo. Lo studio era umido e buio, ma al momento avevo solo quello. Nel 1960, per interessamento del sindaco Petri e del senatore Giorgetti ebbi in affitto dall’Intendenza di Finanza questo locale, dove un tempo si trovava il poligono di tiro. Ah!, adesso mi sono ricordato anche di un altro avvenimento: subito dopo la Guerra, il Comune mi donò il legno di un platano che era stato abbattuto in Piazza delle Paure. Ci feci i tre busti dei tre grandi vincitori della Guerra: Churchill, Stalin, Roosvelt. Quello di Stalin lo comprò l’ambasciatore russo a Roma, quello di Churchill fu offerto dal Comune all’ufficiale americano che prese il comando della zona e Churchill lo comprò uno di qui, mi pare Fontana, quello della musica. Poi nel 1948 partecipai alla mostra postuma di Viani. Mostre, eh! Io sono contento quando posso farle e, se qualcuno vuole comprare o commissionare sono molto disponibile, ma sai se mi propongono di lasciare la mia città io non ce la faccio ad accettare. Non me la sento, capisci?”.
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Giovanni lo osservava con attenzione.
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“Non so cosa sia, ma qualcosa mi tiene legato a questa terra, alla mia città. Questa gente, questi luoghi non si ritrovano da nessuna parte e forse è questo che mi richiama qui ogni volta. Tutti i giorni mi sveglio e respiro quest’aria, questi odori, esco e vedo le costruzioni nuove e le cose vecchie e la gente che è sempre la stessa. Le stesse facce, le stesse espressioni. Viareggio è cambiata, ma i viareggini, quelli veri, no!”
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Si alzò, guardò verso la finestra e chiese piano come se parlasse a se stesso: “Come potrei andarmene di qua, sarebbe come mettere un pesce di mare in acqua dolce. Non ci resisterebbe!”.
“Per esempio”, disse rivolto all’amico, “una volta andai con Beppe a Busto Arsizio per lavorare ad un monumento funebre di un ragazzo. Avevo sei mesi di tempo, ma dopo pochi giorni mi sentivo a disagio, la gente era diversa, la città era diversa. Mi sentivo appunto come un pesce fuor d’acqua, e, poi, mi mancava la famiglia… Così finii velocemente il lavoro e tornai a Viareggio. Altre volte mi avevano offerto di andare a S. Francisco, a Helsinki e a Cassino per restaurare l’abbazia… ed io ho sprecato tutte queste occasioni… è stato un mio difetto, ma io non potevo stare a lungo lontano da Livia, dai bambini. Erano tutto per me. Bambini…, ormai sono uomini e donne…, e, purtroppo, alcuni non ci sono più…”.
“E allora, che hai fatto?”, chiese Giovanni:
“Che ho fatto?”, ripeté Inaco, tornando alla realtà, “Ho continuato a lavorare, la gente iniziava a conoscermi di più. Il Telegrafo, poi Tirreno, Il Giornale del Mattino, La Nazione, iniziarono a pubblicare di tanto in tanto articoli su di me. Nel 1965 partecipai ad una mostra a Milano con alcuni lavori ed un mio Cristo vinse il primo premio. In quel periodo mi fu affidato un grosso lavoro: la decorazione della nuova pasticceria Grazzini, al Varignano, che oggi non esiste più. Un fatto importante fu quando conobbi Huston, un regista americano che era qui per girare il film su Michelangelo ‘Il tormento e l’estasi’. Era in un ristorante qui a Viareggio, perché molte scene del film erano girate alle cave di marmo, e vide delle mie statue. Chiese al proprietario chi le avesse fatte e lo fece parlare con mio figlio che lo portò nel mio studio. Huston era un grande collezionista e ammiratore di arte e volle comprare delle statue. Forse se lo avessi seguito, avrebbe potuto lanciarmi, ma non l’ho fatto… Anche Leandro aveva un forte amore per Viareggio, tant’è che la disgrazia che lo colse accadde proprio perché voleva stare vicino a casa. Anche lui amava l’arte e, in particolare, la pittura. Come me non amava studiare e smise presto, si mise a suonare, a cantare e infine sentì di essere portato per la pittura. Con l’esercizio diventò un buon pittore, prometteva bene. Organizzò delle mostre, una delle prime a Borgo San Lorenzo in Mugello, insieme a me. Però poi si sposò con una donna che più concretamente voleva la certezza di un guadagno migliore e più sicuro per la famiglia. Così lasciò i pennelli e i colori e si imbarcò. Fu dapprima su uno yacht olandese che, però, ogni inverno veniva portato a revisionare in Olanda e lui, con un bambino piccolo, era costretto a stare troppo a lungo lontano da casa. Cercò, quindi, un’altra nave. Ne trovò una fatta nelle nostre darsene e che d’inverno sarebbe tornata qui. La nave però non era in regola perché per risparmiare di spazio, il verricello non era all’aria aperta, ma scendeva in una stanzetta vicino alla cucina. Lì erano ammassate delle bombole di gas. Un giorno, era il 12 giugno del 1981, l’ancora si era impigliata e il comandante ordinò a Leandro di andare a controllare. Lui andò e la catena dell’ancora scintillò sulle pulegge del verricello. Evidentemente una delle bombole perdeva perché ci fu una fiammata improvvisa…”.
Inaco era sempre più commosso, gli occhi erano lucidi. Giovanni ascoltava attento, con un’espressione meno serena di prima.
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“Lo portarono subito all’ospedale di Montpellier perché l’incidente era successo a Montecarlo. Io partii subito con tutta la famiglia e il professore ci disse che, nonostante non sembrasse tanto grave non c’era niente da fare perché aveva respirato la fiammata che gli aveva bruciato gli alveoli polmonari. Dopo sei giorni di agonia, morì. Povero ragazzo…”.
Una lacrima rigava il volto dell’anziano scultore e un’altra era sul punto di scendere.
“Fu tremendo per tutti, Livia ci si sentì male e poco dopo si ammalò di tumore. Per me fu un colpo terribile. Io li amavo molto: una era la donna della mia vita, l’altro, mio figlio. Oggi prego per loro, ogni volta che prego Dio e che vado in chiesa. La religione e la fede, in questi casi, sono l’unica cura… Io che ti devo dire, ho tirato avanti, nonostante il dolore… ho continuato a lavorare.”.
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Dopo una piccola pausa si asciugò gli occhi, sempre umidi di lacrime. Aveva sempre avuto sulla pelle il salmastro portato dal vento gonfio di iodio. Ora, invece, il dolore rendeva il suo volto salato, come spesso aveva fatto negli ultimi anni. Ma si capiva che l’artista aveva una grande forza e serenità d’animo e la sua religiosità sincera e profonda l’aveva di certo sostenuto non poco.
Faticosamente riprese a parlare, il giornalista era lì attento ad ogni particolare.
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“Nel 1981, pochi mesi prima che succedesse di Leandro, il Lions Club della Versilia mi chiese una statua da donare al presidente Pertini. La gradì molto. Ora, almeno in Versilia mi conoscono e lavoro meglio, anche se gli anni incominciano a farsi sentire. Più lontano non penso di essere molto conosciuto anche se una volta un architetto tedesco comprò una quarantina di miei lavori e organizzò una mostra in Germania. Per ora, come ti ho detto, faccio sempre quello che ho fatto”.
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I due continuarono a parlare, ma adesso come amici.
Un forte applauso spezzò di colpo tutti questi pensieri. Giovanni fu quasi meravigliato di trovarsi alla cerimonia in memoria di Inaco.
Adesso era finita.
Lui e sua moglie tornarono a casa. Si sedette alla scrivania come aveva fatto migliaia di volte, ma con animo diverso e si mise a scrivere.
Il giorno dopo presentò al redattore un foglio con un bellissimo articolo che iniziava così:
“Le lapidi in memoria dei morti servono ai vivi per non dimenticare che ci sono stati grandi uomini che sono da esempio a tutti. Io ne conoscevo uno, si chiamava Inaco, ed era di Viareggio”.
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di Gabriele Levantini
www.ilgiardinosullaspiaggia.com
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